Se vi dicessi che questa è una storia sui vampiri, mentirei
Emma Cortesi



foto Margherita Caprilli

"Se vi dicessi che questa è una storia sui vampiri, mentirei." 

Mentire, fare della menzogna un'arte raccontando storie, è un tentativo per dire una verità che altrimenti sfuggirebbe.

E nonostante la forma drammaturgica le permetta di manifestarsi, di lampeggiare nell'oscurità o di uscire da un baule, quella verità rimane un segreto.

Per questo è solo in parte vero dire che il lavoro di Manuela Infante narra di due operaie cilene impiegate nella manutenzione delle turbine eoliche, vampirizzate dalla sete insaziabile di energia rinnovabile. C'è qualcosa di più. E non mi riferisco a ciò che continuerebbe a sfuggire anche se tentassi di restituirlo in queste righe perché l'unico modo di avere davvero a che fare con le arti vive è esserci. Intendo piuttosto la capacità di alcuni testi di risultare completi e sazianti e mantenere al contempo una pelle cangiante, iridescente. Questa strenua resistenza al binarismo innerva l'anima di Vampyr, che come quella dei pipistrelli, dei vampiri e degli umani, è ambigua. 

Ogni suo elemento, dalle personagge agli oggetti scenografici, è contemporaneamente più di una cosa, e in questo senso l'intero lavoro è un nucleo denso di energia che continua a rinnovarsi in nuovi significati, in un movimento narrativo progressivo - nel dispiegarsi della trama - ma anche circolare - nel ritorno e nella risignificazione delle parole. 

Le parole pronunciate dalle vampire sono imprevedibili, appena enunciate significano, e presto da vocaboli si fanno fonemi, si troncano l'una con l'altra accatastandosi senza più capo né coda. Il testo riesce a incarnarsi al contempo come lucida consapevolezza circa la propria condizione di soggetto vampirizzato e anche come punteggiatura sonora di due corpi che articolano un discorso inesprimibile col verbo, la deprivazione del sonno, che oltre a marcare la fisicità delle personagge le rende grottesche, ridicole. Come suggerisce Infante, la rabbia, conciliata a un certo slancio di vita, fa ridere. 

Le due protagoniste (vampire, pipistrelle, umane, operaie colleghe, madre e figlia) parlano una lingua che sembra molte, un lessico familiare e allo stesso tempo specifico, l'esausto dialetto notturno delle vive impiegate nell'unico lavoro a tempo pieno che hanno trovato: la morte. 

Con quali parole comprimere tutte le (non) vite di queste creature nella compilazione di un questionario sul loro stato di salute? Con quale lingua decretare che l'impatto con la sete insaziabile di energia uccide, se le intervistate sono ancora vive? 

Cosa vuol dire essere vive ma anche morte? 

Come si determina l'impatto con la morte quando il corpo non ne porta traccia? 

Il barotrauma è il collasso e la conseguente implosione degli organi interni di un essere vivente a causa dell'eccessiva pressione. Molteplici circostanze possono concorrere a una pressione eccessiva, come il vorticare delle pale di una turbina eolica. 

Il corpo che ha subito un barotrauma non ne porta alcun segno esterno. Sembra addormentato, ma è morto. 

Quelle del turno di notte invece sono sveglie ma sono anche morte perché non possono dormire, hanno sete perché per via dell'elettricità non possono bere, sono arrabbiate. 

Se è vero che anche chi sopravvive al morso si trasforma, nel lavoro capitalistico tutte sono vampire, ma ciò che distingue i mostri insaziabili dalle creature esauste della notte e i pipistrelli caduti a terra con gli organi esplosi è una questione quanto mai umana: la condizione di classe. C'è chi morde e chi è morsa.

C'è chi pianta il bosco di alberi bianchi che non cessano mai di sussurrare, il bosco dove la morte è un lavoro a tempo pieno, e c'è chi non può permettersi di non lavorare.



 
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